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In loro, l’amore è coinciso con l’arte, un’arte che si è fatta vita, tramite azioni simboliche e irripetibili, nella loro unicità del momento. Marina e Ulay sono, infatti, i nomi più noti della Performance Art, e in particolare della Body Art, nata negli anni ’60: una tipologia di indagine artistica che prevede l’utilizzo del corpo dell’artista stesso come mezzo espressivo e come opera d’arte, inserito nell’effimeratezza del “qui e ora”e in rapporto diretto col pubblico.
Le performances sono forme artistiche dinamiche che rompono i confini tra le varie arti, mescolando teatro, danza, poesia, pittura, cinema, e che spesso richiedono la partecipazione di chi vi assiste.
Marina Abramovic e Frank Uwe Laysiepen stavano proprio lavorando in questa direzione quando si incontrarono ad Amsterdam nel 1976. Lei aveva 30 anni e proveniva da Belgrado, lui 33 e, figlio di un gerarca nazista, aveva rinnegato le sue origini tedesche adottando il nome d’arte di Ulay. Scoccò il colpo di fulmine, e i due decisero di vivere assieme, senz’altro che l’arte a nutrirli: viaggiarono per l’Europa in un furgone adibito a camper, senza acqua corrente né riscaldamento, vivendo di ciò che ricavavano ogni tanto dalle loro esibizioni e dalle polaroid scattate da Ulay. Nessuna dimora stabile. Energia mobile. Movimento permanente. Nessuna prova. Contatto diretto. Nessun finale prestabilito. Relazione locale. Nessuna replica. Autoselezione. Vulnerabilità estesa. Superare i limiti. Esposizione al caso. Correre rischi. Reazioni primarie, questo è il modo in cui descrissero la loro esperienza, portata avanti per 5 anni, che dichiararono essere stati i più belli della loro vita.
Considerandosi due metà che formano un essere unico, in seguito si dedicarono ai cosiddetti “Relation Works“, performances in cui rappresentano il rapporto di coppia, nella sua irrimediabile contradditorietà. Nella prima, “AAA-AAA”, i due, uno di fronte all’altra, emettono un suono monotono e continuo, che cresce gradualmente fino ad arrivare a un urlo, finché uno dei due cede, esausto. In “Relation in time” sono invece immobili uno di spalle all’altra, ma con i capelli strettamente legati insieme, e stanno così per 17 ore, dopo le quali si nota come i capelli siano allentati e spettinati. In “Breathing in/Breathing out” li vediamo poi con il naso tappato e le bocche unite, respirando l’aria dell’altro, fino allo svenimento dovuto alla mancanza di ossigeno nell’aria assorbita da ciascuno.

Cosa vogliono dire attraverso questi gesti altamente visivi, coinvolgenti e disturbanti? Condensando le possibili evoluzioni di anni di relazione in poche ore o minuti, Marina e Ulay esplorano i propri limiti rispetto all’universo dell’altro, che ci risucchia e ci trascina magneticamente verso di lui, fino a dipenderne. In questa fusione simbiotica, dolce e pericolosa al contempo, si cerca tuttavia sempre di mantenere la propria individualità e il controllo su di sé, in un equilibrio tra difesa e abbandono, tra gioia e vulnerabilità. Questo bilanciarsi a vicenda lo rendono ancora più evidente in “Rest Energy”, dove Marina tira verso di sé il manico di un arco, mentre Ulay tende una freccia incoccata, entrambi inclinati per mantenere il baricentro dell’arco stabile: se uno dei due si muove, Ulay potrebbe diventare un assassino e Marina morire. Rischiando ma avendo fiducia nell’altro, resistono così per 4 minuti, con un microfono che registra i loro battiti del cuore sempre più euforici, un tempo che sembra infinito, che sembra il tempo dell’amore che si dilata in verticale per fuoriuscire da quello canonico orizzontale.

Assai celebre è il loro intervento per l’apertura della Galleria d’Arte Moderna di Bologna nel 1977: si piazzarono nudi all’entrata del museo, uno di fronte all’altra, rendendo lo spazio per passare così stretto che il visitatore doveva per forza girarsi di lato per entrare. Erano anni in cui si stava sviluppando la lotta al pudore e al perbenismo sociali, per cui infatti la polizia dopo un’ora dall’inizio dell’azione intervenne e la interruppe.
La loro storia durò 12 anni, e ne suggellarono la fine con un’ultima performance, molto lirica: “The Lovers: The Great Wall Walk”, in cui partirono dagli estremi della Muraglia Cinese per incontrarsi a metà strada, dopo tre mesi di cammino, e dirsi addio. In verità, l’idea era nata all’inizio della relazione, per sancire il “matrimonio tra le loro anime”, ma la autorità cinesi ci misero ben 8 anni per accordare loro il permesso. Quando ricevettero la notizia, il loro rapporto era ormai in crisi, ma colsero l’occasione per concludere il rapporto nella stessa maniera in cui era iniziato.
Le loro strade allora si divisero: Ulay scelse una vita più lontana dai riflettori, che aveva sempre sopportato con difficoltà, dedicandosi soprattutto alla fotografia, mentre Marina proseguirà la strada della Body Art, diventando un’artista conosciuta a livello planetario.
Siamo infatti nel 2010, al Moma di New York, durante la performance “The artist is present”, in cui Marina siede 8 ore al giorno fissando lo sguardo in quello dei visitatori che a turno, per due minuti, possono sedersi su una sedia di fronte a lei. Un dialogo muto che carica di sentimenti sia il visitatore che l’artista stessa, che appunto tra una persona e l’altra chiude gli occhi per elaborare l’incontro passato e prepararsi al successivo. Ad un certo punto, li riapre e si trova davanti Ulay, che non ha più visto da 23 anni. L’emozione è così forte e inaspettata che la padronanza di sé che le aveva permesso di sottoporsi alle dure prove fisiche e mentali che hanno sempre contraddistinto il suo lavoro artistico viene meno, e non riesce a non commuoversi, protendendosi verso di lui e prendendogli le mani. Forse è l’immagine più rappresentativa dell’unione di arte e vita che i due hanno sempre cercato di ottenere attraverso la messa in scena delle loro performances… proprio perchè stavolta è la scena stessa che, rompendo il copione, ne crea un altro!
P.S.: il momento è stato ripreso ed è diventato topico, lo potete rivedere qui: